- Autotech Italia
- Posts
- L'Occidente non sa più costruire: perché la dipendenza industriale è una minaccia per l'automotive
L'Occidente non sa più costruire: perché la dipendenza industriale è una minaccia per l'automotive
Indice dei contenuti
Benvenuti alla 45ª edizione di Autotech Italia!
Questa settimana ci addentriamo in un tema tanto spinoso quanto fondamentale per il futuro del nostro settore e, più in generale, del nostro modello economico.
Partendo da una riflessione provocatoria sulla deindustrializzazione americana, analizzeremo come la crescente dipendenza produttiva dalla Cina stia ridefinendo gli equilibri globali, con impatti diretti e tangibili sul mondo dell'automotive.
Esploreremo le cause, le conseguenze e le possibili strategie per affrontare una sfida che non è solo economica, ma anche strategica e culturale.
Buona lettura!
Il gigante industriale cinese e il sonno dell'Occidente
Questo ragionamento è basato sull'articolo "America Won't Exist If We Can't Build Things" di The Free Press che ho riportato tra le notizie selezionate nell'edizione AutoNews w29-30 2025 della scorsa settimana.
Un approfondimento che mi ha davvero colpito perché lancia un allarme che risuona ben oltre i confini statunitensi, arrivando a scuotere le fondamenta dell'intero mondo occidentale, Italia inclusa.
La tesi è brutale nella sua semplicità: abbiamo perso la capacità di "costruire cose".
Mentre per decenni abbiamo inseguito l'efficienza della globalizzazione, delocalizzando la produzione e concentrandoci su finanza, servizi e software, un'altra parte del mondo, la Cina, ha fatto esattamente l'opposto.
Ha costruito, investito, pianificato e, infine, dominato la catena del valore industriale. Oggi, non si tratta più solo di assemblare prodotti a basso costo.
Pechino controlla le materie prime critiche, le tecnologie di raffinazione, la componentistica avanzata e intere filiere produttive.
Questa non è una semplice competizione economica; è una dipendenza strategica che, nel settore automotive, si manifesta in tutta la sua pericolosità.
Dalle batterie per veicoli elettrici ai semiconduttori, passando per l'acciaio e le leghe speciali, l'ombra del Dragone si allunga su ogni fase della produzione di un'automobile. Ignorare questa realtà significa prepararsi a un futuro in cui le nostre fabbriche e la nostra capacità di innovare saranno ostaggio di decisioni prese a migliaia di chilometri di distanza.
La filiera automotive: un'arteria vitale sotto assedio
Per comprendere la portata del problema, basta analizzare la catena di fornitura di un'auto moderna. Un tempo, era un ecosistema prevalentemente locale o al massimo regionale.
Oggi, è una ragnatela globale incredibilmente complessa e fragile, con un centro nevralgico ben definito: la Cina.
Prendiamo l'esempio più lampante, quello dei veicoli elettrici (EV). L'Europa e l'America hanno fissato scadenze ambiziose per la transizione ecologica, ma chi fornirà le batterie?
Attualmente, la Cina controlla oltre il 75% della produzione mondiale di celle per batterie al litio e detiene un quasi monopolio sulla lavorazione di materie prime essenziali come il litio stesso, il cobalto e la grafite.
Questa egemonia non è casuale, ma il frutto di una strategia ventennale di investimenti mirati e sussidi statali. Il risultato è che i costruttori occidentali, per rispettare i loro stessi piani industriali, sono costretti a stringere partnership sempre più strette con i giganti cinesi come CATL o BYD, importando non solo il prodotto finito, ma anche il know-how e la tecnologia. La dipendenza non si ferma alle batterie.
Semiconduttori, display, sistemi di infotainment, motori elettrici: in innumerevoli componenti cruciali, la Cina è diventata un fornitore imprescindibile, capace di influenzare prezzi, disponibilità e, in ultima analisi, la stessa capacità produttiva delle case automobilistiche europee e americane.
Dalla delocalizzazione alla de-capacitazione: la perdita del saper fare
Il problema più profondo, evidenziato dall'analisi di The Free Press, non è solo la delocalizzazione delle fabbriche, ma la conseguente "de-capacitazione" del nostro sistema industriale.
Per decenni, abbiamo insegnato ai nostri manager che il valore risiedeva nel brand, nel marketing e nella finanza, mentre la produzione era una "commodity" da esternalizzare al miglior offerente.
Questo approccio ha eroso progressivamente il nostro capitale più prezioso: il "saper fare".
Abbiamo perso intere generazioni di ingegneri di processo, tecnici specializzati e operai qualificati. Le scuole tecniche si sono svuotate, considerate un'opzione di serie B rispetto ai licei e alle università focalizzate su materie umanistiche o economiche.
Il risultato è un paradosso drammatico: oggi, anche se volessimo avviare un massiccio processo di "reshoring" (il rientro delle produzioni), ci scontreremmo con una carenza strutturale di competenze.
Non basta costruire un nuovo impianto; bisogna avere le persone in grado di progettarlo, gestirlo, manutenerlo e ottimizzarlo.
La Cina, al contrario, ha investito massicciamente nella formazione STEM (Scienza, Tecnologia, Ingegneria e Matematica), creando un esercito di professionisti che oggi non solo replica, ma sempre più spesso innova e migliora i processi produttivi.
Questa perdita di capitale umano è molto più difficile e lenta da ricostruire rispetto a un impianto industriale.
La risposta dell'Occidente: tra dazi e illusioni tecnologiche
Di fronte a questa schiacciante realtà, la reazione dell'Occidente appare spesso confusa e tardiva.
Da un lato, si ricorre allo strumento dei dazi, come quelli recentemente imposti dall'amministrazione Biden e, più timidamente, dall'Unione Europea.
Sebbene possano offrire un sollievo temporaneo a qualche produttore locale, i dazi non risolvono il problema strutturale. Sono un cerotto su una ferita profonda. Non ricreano le competenze perdute, non garantiscono l'accesso alle materie prime e rischiano di innescare guerre commerciali che danneggiano tutti.
Anzi, possono persino rallentare la transizione ecologica, rendendo più costose le tecnologie (come i pannelli solari o le batterie) di cui abbiamo disperatamente bisogno.
Dall'altro lato, c'è l'illusione che la nostra superiorità nel software e nell'innovazione "di alto livello" possa salvarci. L'idea che noi progettiamo in California e in Germania, mentre loro si limitano ad assemblare in Asia, è un ritratto sbiadito degli anni '90.
Oggi, aziende come Huawei, BYD o Xiaomi non sono semplici copioni; sono potenze tecnologiche che investono miliardi in R&D e depositano decine di migliaia di brevetti. La separazione tra hardware e software è sempre più fittizia: chi controlla la produzione fisica ha un vantaggio enorme anche nello sviluppo delle tecnologie future, perché può testare, iterare e migliorare in modo molto più rapido ed efficiente.
Una strategia per la rinascita industriale: oltre l'emergenza
Uscire da questa spirale di dipendenza richiede una strategia a lungo termine, non semplici reazioni emotive.
Il primo passo è una presa di coscienza collettiva, a livello politico, imprenditoriale e sociale: produrre è un'attività strategica, non un costo da tagliare.
Questo deve tradursi in politiche industriali coraggiose. Servono investimenti massicci e coordinati a livello europeo per creare filiere complete, dalle miniere (dove possibile e sostenibile) e dal riciclo delle materie prime, fino alla produzione di batterie e semiconduttori di nuova generazione.
L'obiettivo non deve essere l'autarchia, ma la diversificazione e la riduzione delle dipendenze critiche. In secondo luogo, è imperativo un cambio di paradigma culturale e formativo.
Dobbiamo tornare a valorizzare il lavoro tecnico e manifatturiero, investendo in Istituti Tecnici Superiori (ITS) e lauree professionalizzanti, creando un legame solido tra mondo della formazione e industria.
Le aziende devono fare la loro parte, offrendo percorsi di carriera attrattivi e investendo nell'aggiornamento continuo delle competenze. Infine, dobbiamo essere realistici.
Non possiamo ricostruire in cinque anni ciò che abbiamo smantellato in trenta.
Sarà un processo lungo e costoso, che richiederà sacrifici e una visione chiara.
Ma l'alternativa, ovvero una passiva accettazione della nostra irrilevanza industriale, è semplicemente incomprensibile.
👉 La mia opinione
Leggere l'articolo di The Free Press è come ricevere un pugno nello stomaco.
Fa male perché, al di là del contesto americano, descrive una verità che sentiamo serpeggiare da anni anche qui in Europa, nel cuore del nostro settore.
Per troppo tempo ci siamo raccontati la favola rassicurante dell'economia della conoscenza, dove il "lavoro sporco" della produzione poteva essere lasciato ad altri.
Abbiamo scambiato la solidità delle fabbriche con la volatilità della finanza, la competenza dei tecnici con l'eloquenza dei guru del marketing.
Oggi, il conto di quella scelta sta arrivando, ed è salatissimo.
Nel mondo dell'auto, lo vediamo ogni giorno. Parliamo di gigafactory da costruire, ma ci mancano le competenze per farle funzionare a pieno regime.
Celebriamo la transizione elettrica, ma dipendiamo da un unico fornitore globale per le sue componenti più vitali.
È un paradosso che rischia di trasformare la nostra industria in un semplice assemblatore di kit progettati e prodotti altrove.
La sfida non è tornare a un passato idealizzato, ma costruire un futuro in cui l'innovazione di prodotto e quella di processo tornino a marciare insieme.
Dobbiamo riscoprire l'orgoglio di "saper fare", di trasformare la materia, di ottimizzare una linea produttiva.
Questo richiede un'alleanza vera tra imprese, politica e mondo della formazione.
Non basta invocare il "Made in Italy" o il "Made in Europe" se dietro a quell'etichetta non c'è una reale capacità industriale.
La vera sovranità, oggi, non si misura solo con gli eserciti, ma con le fabbriche.
E noi, come Occidente, dobbiamo decidere in fretta se vogliamo tornare a essere costruttori del nostro destino o semplici consumatori di quello altrui.
🔥 Versione audio Podcast
Ascoltalo comodamente dal cellulare su 👇👇👇
Iscriviti al canale “Autoteche Italia” cliccando su “Iscriviti” e metti il like al video podcast
☝️ Vi aspetto alla prossima edizione “AutoNews”
La prossima settimana pubblicherò una nuova edizione di “AutoNews”, la versione quindicinale dedicata alle fonti selezionate per voi che si alterna con quella di approfondimento come quella di oggi.
Se non la hai già letta ecco qui un esempio 👉 AutoNews w29-30 2025
A breve la versione “AutoNews” sarà inviata via mail solo ai membri della community che inviteranno almeno 5 nuovi iscritti tramite il “programma "referral” (ndr: per il momento è ancora libera, ma meglio prepararsi per tempo 😉).
Come funziona? Semplice, copia il tuo link univoco e mandalo ad esempio via Whatsapp ai tuoi colleghi, collaboratori o persone di tuo interesse che possano iscriversi.
IMPORTANTE: ogni nuova iscrizione sarà valida se il contatto, dopo aver fatto l’iscrizione dal tuo link, avrà cliccato nella mail di conferma.
|
|
|
|
Il tuo feedback è importante!
Grazie 🙏 per aver letto questa edizione!
Ti è piaciuto il numero di oggi? |
Se vuoi puoi rispondermi anche direttamente alla mail se hai suggerimenti o indicazioni specifiche.
Alla prossima settimana!
Altro materiale:
🧑💻 Il progetto
Reply